2,5 trilioni di dollari: è questo, secondo quinto report The State of Fashion sviluppato da The Business of Fashion insieme a McKinsey e focalizzato sugli effetti che il Covid-19 ha e avrà sull’industria fashion, il valore generato dal sistema moda globale. Che riporta altre evidenze: la capitalizzazione di mercato media dei player di abbigliamento, moda e lusso è scesa quasi del 40% tra l’inizio di gennaio e il 24 marzo 2020, un calo molto più marcato rispetto a quello dell’intera borsa. Le ripercussioni a livello umanitario dureranno ben oltre la fine della pandemia, generando una lunga serie di difficoltà finanziarie per coloro che operano attraverso la catena del valore – dagli addetti alla raccolta delle fibre utilizzate per la fabbricazione dei tessuti ai commessi che vendono il prodotto finito.
BoF e McKinsey stimano che i ricavi per l’industria della moda globale si contrarranno dal 27 al 30% nel 2020 rispetto all’anno precedente, anche se si potrebbe riguadagnare una crescita positiva dal 2 al 4% nel 2021. Per il lusso (moda, accessori, orologi, gioielleria e beauty di fascia alta), la contrazione delle entrate globali va dal 35 al 39% nel 2020, con una crescita positiva dall’1 al 4% nel 2021.
La chiusura prolungata dei negozi fisici causerà – all’80% delle aziende di moda quotate in borsa in Europa e Nord America – enormi problemi a livello di liquidità, il che si unisce al fatto che, secondo l’analisi dell’MGFI (McKinsey Global Fashion Index), il 56% delle aziende mondiali di moda non stava recuperando il costo del capitale nel 2018: tradotto, la previsione è che moltissime saranno destinate a fallire nei prossimi 12-18 mesi.
A fare il resto ci pensa il diffuso pessimismo dei consumatori sull’economia: il 75% degli acquirenti negli Stati Uniti e in Europa è convinto che la propria situazione finanziaria sarà influenzata negativamente per più di due mesi, e per tale motivo tende a dare la priorità ai beni di prima necessità.
«Una volta che la polvere si depositerà su questa crisi, la moda dovrà affrontare un mercato recessivo e un panorama in drammatica trasformazione. Ciò richiederà una collaborazione senza precedenti all’interno del settore, anche tra concorrenti. Nessuna azienda supererà la pandemia da sola e i fashion players dovranno condividere dati, strategie e approfondimenti su come navigare in mezzo alla tempesta» ha dichiarato Imran Amed, fondatore e CEO di BoF. «La crisi è un catalizzatore che obbligherà l’industria a un cambiamento: è il momento di prepararsi a un mondo post-coronavirus».
L’attuale ‘quarantena dei consumi’ potrebbe accelerare alcuni spostamenti nella mentalità dei consumatori, come una crescente antipatia nei confronti dei modelli di business inquinanti e una maggiore aspettativa verso azioni mirate e sostenibili. Nel frattempo, molti dei cambiamenti a cui assisteremo nel sistema-moda – un salto di qualità digitale, un design senza stagioni, il declino del commercio all’ingrosso – sono principalmente un’accelerazione dell’inevitabile: cose che sarebbero comunque accadute se non fosse arrivata la pandemia a velocizzare il processo.
Dall’analisi di BoF e McKinsey emergono cinque temi principali:
l’istinto di sopravvivenza (le aziende per sopravvivere alla crisi dovranno effettuare interventi coraggiosi e rapidi per stabilizzare il proprio core business prima di cercare nuovi mercati);
la mentalità del risparmio (per riconquistare un pubblico disilluso, parsimonioso e in difficoltà, i brand dovranno trovare il modo di ripensare la propria mission e di riacquistare valore);
l’escalation digitale (ormai la priorità più urgente nell’intera catena fashion);
il ridimensionamento darwiniano («adattati o muori» sarà il nuovo mantra: per garantire il proprio futuro, le aziende devono ripensarlo proprio adesso);
l’innovazione come imperativo (per mitigare l’impatto della pandemia e adattarsi al cambio di economia e di consumatori, le aziende devono introdurre nuovi strumenti e strategie lungo tutta la catena).
Tra questi in particolare «la necessità di digitalizzarsi, oggi più che mai, è un obbligo morale per le aziende, che hanno finalmente capito il valore della digitalizzazione»: a parlare è Anastasia Sfregola, Sales Director per il mercato italiano di Kooomo, piattaforma per e-commerce nata più di vent’anni fa da un’intuizione di Giovanni Meda, che la guida insieme al CEO Ciaran Bollard.
Anastasia Sfregola, Sales Director per il mercato italiano di Kooomo.
Kooomo offre ai clienti una gestione professionale del loro e-commerce, e si rivolge a tutte le realtà che desiderano affermare il proprio business online e vendere più e meglio in tutto il mondo. Sono oltre 500 i brand che si sono affidati alla sua tecnologia – La Sportiva, C.P Company, Miss Bikini, Blauer USA, Camomilla Italia, MotoGP, Umbro, Havaianas – per oltre 1 miliardo di transazioni e una crescita di vendite online anche del 200%.
«Per le aziende è arrivato il momento di internazionalizzare con il supporto della tecnologia», continua Sfregola, «scegliendo quindi un software in grado di coordinare al meglio tale operazione. Ora come ora le aziende devono smaltire la merce invenduta: si stanno perdendo i mesi più importanti del prezzo pieno, i clienti stanno cancellando gli ordini, la produzione si sta ridimensionando e i magazzini sono pieni. La moda con tutta probabilità salterà due stagioni, e ciò significa che quando riapriranno i negozi i consumatori ritroveranno gli stessi capi della stagione precedente. L’internazionalizzazione (in termini sia tecnologici che digitali) è dunque fondamentale perché permette di aprire nuovi mercati tramite l’e-commerce, nuovi mercati che percepiranno una collezione – anche se ‘vecchia’ di sei mesi – comunque come appena uscita».
Per Sfregola occorre inoltre studiare strategie più efficaci sui marketplace, che se da un lato – almeno, finora – sono serviti a liberarsi delle giacenze, «dall’altro aiutano a internazionalizzare e a far conoscere il marchio in Paesi diversi. Avviare un marketplace in una nuova country – parallelamente al sito istituzionale – è un buon modo per aumentare la brand awareness, a patto che venga gestito con lungimiranza: non solo un luogo dominato dalla scontistica, ma un’opportunità per fare posizionamento».
Ovvio che sito istituzionale e marketplace devono essere connessi, spiega Sfregola, «per avere un’esperienza multichannel e collegare la merce presente sul magazzino principale a quella sul marketplace, così da padroneggiare pienamente il turnover».
Un’ulteriore valida strategia per le aziende del pronto-moda per fare cassa immediata e produrre solo a fronte di un’effettiva richiesta consiste nel «creare della capsule collection speciali, nate da collaborazioni con artisti e influencer, solo per l’online da gestire con il pre-ordine».
Nel segmento del lusso, invece, «dato il peculiare processo d’acquisto, occorre inserire dei tool lato front-end che non siano dei meri chatbot, ma che permettano azioni come la videochiamata con un essere umano che vende il prodotto, lo descrive, chiarisce le policy di reso etc».
Il punto vendita online va in un certo senso umanizzato e reso un po’ fisico: «se quest’innovazione fosse già pronta, le commesse che ora sono a casa in cassa integrazione potrebbero già lavorare semplicemente collegandosi tramite videocamera ed fare le visual assistant, una sorta di naturale evoluzione della loro mansione».
Sfregola ribadisce quanto sottolineato dal report di di BoF e McKinsey:
«i trend del digital erano ben noti, d’altronde si parlava di augmented reality, virtual reality, virtual assistant e 5G ormai da un paio d’anni. La pandemia li ha semplicemente accelerati: certo che se i clienti fossero già stati pronti, avrebbero potuto utilizzare le loro risorse in maniera differente. Forse adesso ne sono consapevoli, forse adesso sanno che l’unica via è digitalizzarsi al 100%, lato B2C e anche B2B».
Le fa eco Alessio Berdini, e-commerce manager di Fabi Shoes, azienda di Montegranaro, nel cuore del distretto calzaturiero marchigiano, che produce scarpe, abbigliamento e accessori per uomo e donna, all’insegna del Made in Italy.
Berdini aggiunge al discorso un tassello essenziale, il contenuto:
«Siamo reduci da un periodo difficile proprio in virtù del nostro prodotto, parecchio legato a contesti business o cerimonia – che sono appunto venuti meno. In questo frangente non ci siamo fatti prendere dall’ansia, abbiamo accettato una situazione che comunque non dipende da noi e ne abbiamo approfittato per improntare una comunicazione empatica, che agisse più sul brand che sul prodotto, raccontandolo sotto vari aspetti. Ciò ha inaspettatamente creato un forte engagement: non ci siamo fatti prendere la mano da grossi sconti ma abbiamo preferito puntare su un piano editoriale che capitalizzasse sull’immagine del marchio».
La ripartenza, però, mette l’azienda davanti al solito problema dei magazzini pieni, tanto delle scarpe dell’e-commerce, quanto di quelle dei monomarca e dei negozi più piccoli:
«dovremo lavorare su un calendario che preveda una fase di sconti un po’ più estremizzata a livello di percentuali, senza distruggere ciò che abbiamo costruito nei due mesi precedenti. La sfida, insomma, sta nel capire qual è il momento giusto per tornare a parlare di prodotto a seconda del Paese, trovando un equilibrio tra il lavoro e i risultati conseguiti e il bisogno di fare cassa».
In un simile panorama, l’e-commerce, per Berdini,
«è il centravanti dell’azienda, la leva principale su cui puntare. Visto poi che le fiere stanno saltando e le campagne vendita cambieranno radicalmente, stiamo prevedendo uno sviluppo digital pure per la vendita B2B nei negozi, di fatto con un secondo e-commerce che sostituirà tutto quello che prima avveniva fisicamente».
Sforzandosi di vedere il bicchiere mezzo pieno, la pandemia potrebbe essere un’opportunità per ridefinire i modelli di business del fashion e costruire un futuro più sostenibile e interamente digitale.
Matthew Drinkwater, a capo della Fashion Innovation Agency (FIA), l’ha confermato a Forbes :«Il COVID-19 sta costringendo i marchi a impegnarsi e sperimentare tecnologie immersive. Siamo stati inondati di richieste su come creare abbigliamento virtuale, nonché passerelle e showroom virtuali. Tornare a una normalità pre-coronavirus non è un’opzione: integrare tutte le forme di digitalizzazione, dalla catena di approvvigionamento e creazione, fino al visual merchandising e alla vendita al dettaglio è il requisito fondamentale per la sopravvivenza di un brand. E abbracciare le tecnologie capaci di renderlo più forte è diventato un imperativo categorico da cui è impossibile fuggire».